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Il nostro Yulin quotidiano


Malgrado le proteste in tutto il mondo del movimento “animalista”, e non solo, ieri si è svolto regolarmente il festival della carne di cane a Yulin, nel sud della Cina.

Come ogni anno, circa diecimila animali sono stati uccisi barbaramente per divenire cibo.

Pur essendo esplicitamente contro questo festival (tanto che alcuni nostri attivisti hanno partecipato alla manifestazione davanti all’ambasciata cinese la settimana scorsa), vogliamo provare a mettere in luce alcuni aspetti significativi, al fine di non considerare Yulin come un’eccezione, ma come uno dei tanti volti del massacro animale, quotidiano ed incessante.

Il primo punto, generale, è evidente agli occhi di tutti: nel mondo occidentale l’uccisione a scopo alimentare di un cane genera indignazione, mentre quella di una mucca, di un maiale e di un pollo no, visto che viene concepita come una normalità, un accadere naturale. In verità, la distinzione tra animali da compagnia e animali d’allevamento non è una differenziazione basata su criteri naturali, bensì su parametri culturali che, per questo, cambiano di società in società. Prendendo l’esempio della Cina, è del tutto normale per la maggioranza degli abitanti del sud cibarsi di carne di cane, mentre questo è ormai apertamente condannato dagli abitanti del nord. Per questo, non c’è da stupirsi riguardo alla partecipazione di molti cinesi alle manifestazioni contro il festival di Yulin, alle quali si è unito gran parte del mondo occidentale, organizzando eventi di protesta in tutto il mondo e lanciando una petizione online. In questo clima di condanna, però, ci si è forse dimenticati che le barbarie ed i massacri non accadono solamente a Yulin e che, troppo spesso, con il proprio agire quotidiano si contribuisce ad alimentarli. Limitandoci alla questione animale, quanti polli, maiali e pesci vengono uccisi (perché mangiati) da quelle stesse persone che si indignano davanti ai cinesi mangiatori di cani? Del resto, è facile condannare ciò di cui non si è responsabili, mentre è molto più difficile analizzare le proprie azioni, al fine di cambiare se stessi. La maggioranza degli occidentali (a cui si è unita una discreta fetta di orientali) condanna il festival di Yulin, perché culturalmente considera inaccettabile mangiare carne di cane, non rendendosi conto che moralmente questa ha la stessa valenza di quella di altri animali, quotidianamente allevati e uccisi per finire sulla loro tavola.

Venendo al secondo punto, Animals Asia ha portato avanti una maestosa indagine, tesa a mettere in luce la crudeltà di Yulin. Dei tanti punti analizzati, uno spicca particolarmente: non esistono allevamenti intensivi di cani. E, allora, da dove proviene la carne? Di fatto, tutti gli animali sacrificati nel corso del festival, sono randagi o animali rubati ai legittimi padroni (non è un caso che in questo periodo aumenti anche la criminalità). Questo può essere definito l’aspetto veramente unico di Yulin. A ben vedere, però, presenta anche un’analogia con il nostro mondo. Non è forse, infatti, il terrore dei cani rubati ai loro padroni, paragonabile a quello degli “animali d’allevamento” costretti a sopravvivere all’interno di capannoni, drogati e maltrattati, senza mai vedere la luce del sole? Se nel mondo occidentale è vero che, come afferma Guido Ceronetti: «Dicono di aver abolito i sacrifici animali! Soltanto il rito hanno abolito: li sterminano ininterrottamente, illimitatamente, senza bisogno. Il sacerdote si è fatto industria»; l’unica differenza sta nel fatto che nel sud della Cina questo processo ancora non è avvenuto, rimanendo ancora ai tempi del sacerdote. Comunque, nessuno di noi vorrebbe essere un cane a Yulin in questi giorni, ma nemmeno uno dei tanti “numeri” della catena di montaggio degli allevamenti intensivi.

Il terzo punto, riguarda alcune restrizioni poste agli organizzatori di questo festival, che consistono nei divieti di uccidere gli animali in spazi pubblici e di esibirne le carcasse. Questa strategia sembra essere molto vicina a quella che, riferendosi al modo di produzione industriale della carne, la psicologa Melanie Joy ha definito la strategia dell’elusione, affermando che: «Gli stabilimenti che producono la maggior parte della carne che si trova nei nostri piatti per la cena, sono fondamentalmente, invisibili. Non li vediamo. […] Non li vediamo perché non dobbiamo vederli. Come in ogni ideologia violenta, la popolazione deve essere protetta dal contatto diretto con le vittime del sistema, per timore che inizi a mettere in dubbio il sistema stesso o la propria partecipazione a esso. Tale verità parla da sé: per quale altra ragione l’industria della carne arriverebbe al punto di tenere invisibili le sue pratiche?». Così, come McDonald’s potrà continuare a devastare il Pianeta e ad uccidere miliardi di animali l’anno, anche il festival di Yulin potrà sopravvivere nel corso del tempo, basta, però, che non turbi la sensibilità delle persone.

In conclusione, allora, la nostra solidarietà non può che andare a tutti quegli attivisti che, in Cina, rischiano la loro vita per smascherare i traffici criminali e salvare centinaia di cani innocenti, ma anche a tutti coloro i quali, in tutto il Pianeta, si battono quotidianamente per il rispetto e la salvaguardia della Vita, nelle sue differenti forme.


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