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La Pasqua cristiana e la Vita degli agnelli


È consuetudine considerare l’atto di cibarsi di carne di agnello durante il giorno di Pasqua una tradizione cristiana. In realtà, si tratta di un luogo comune, non sostenuto teologicamente in alcun modo, ma alimentato, più che dalla fede, dal semplice piacere del palato. L’obiettivo di questo breve articolo sta nella volontà di mostrare come quest’idea non sia soltanto erronea, ma addirittura antitetica rispetto all’ideale di compassione per ogni essere vivente proprio del cristianesimo. Cibarsi di neonati sarebbe una forma di barbarie e non la riattualizzazione di un rito, visto che già il dibattito di Loadicea (165 d.C.) decretò il distacco da questa tradizione, propria dell’antica storia ebraica.

Recentemente è intervenuto sul tema, Monsignor Michele Castoro, Arcivescovo della diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, affermando che: «La Pasqua cristiana non ha nulla a che fare con la strage di milioni di agnellini, in quanto Cristo, vero agnello pasquale, ha immolato se stesso per riscattarci dalla malvagità, dalla ingiustizia e da tanti altri mali che affliggono l’uomo e il Creato». Di fatto, l’unico vero agnello di Dio, “che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29), è Cristo, il quale, con il suo sacrifico sulla croce, ha redento l’umanità dal Peccato originale, dandole la possibilità di salvezza.

In questo senso, la Pasqua (dal greco pàthos, “sentire”), o meglio ancora il percorso che conduce ad essa, dovrebbe essere vissuta come un momento di riflessione verso quest’atto, Cristo immolato per l’umanità sulla croce, così pregno di “passione”, da non poter non attrarre anche gli spiriti più materialistici. Un momento non solo di pensiero, ma anche di azione spirituale, alimentato dall’esperienza del digiuno del Venerdì Santo e, se si vuole, anche del Sabato. Il digiuno, che prevede comunque un pasto giornaliero, permette di confrontarci con noi stessi, ricordandoci che non siamo fatti solamente di un corpo, ma anche di un’anima da coltivare e preservare. Digiunare significa prendersi uno o più giorni di cura per il proprio spirito, in un periodo storico in cui si pensa quasi solamente al corpo. Inoltre, se fatto responsabilmente, il digiuno non può che giovare al proprio fisico. Insomma, da penitenza e rinuncia, quest’esperienza può essere considerata una vera e propria conquista.

In quest’ottica, in un momento così intenso sia da un punto di vista spirituale che fisico, cibarsi di neonati sarebbe un controsenso: come potremmo, infatti, celebrare la possibilità di salvezza, offertaci da Cristo, in vista di una vita eterna, attraverso il sacrificio di milioni di esseri senzienti?

In vista di una Pasqua di riflessione, di spiritualità e di Vita, vogliamo concludere questa riflessione con un estratto di un articolo di Don Luigi Lorenzetti di qualche anno fa:

“Il comandamento non uccidere si estende anche agli animali? È sostenibile l’interpretazione tradizionale che lo limita ai soli esseri umani? Come prima risposta si può evidenziare che il comandamento, nella sua dizione sintetica («non uccidere»), non esclude gli animali. Infatti, dice «non uccidere» anziché «non commettere omicidio». In ogni caso, la comprensione della creazione e del suo futuro ultimo conduce a estendere logicamente quel comandamento anche agli animali. L’universo (e tutte le sue creature) è affidato all’uomo, perché lo custodisca e lo porti a compimento secondo il disegno di Dio. L’uomo non è padrone o proprietario, ma amministratore. Certamente le creature sono utili all’uomo ma, prima ancora, sono bellezza e valore per se stesse e dicono appartenenza al Creatore che le ha create. Non giova molto discutere se gli animali hanno diritti, è certo che l’uomo ha dei doveri e delle responsabilità: non ha il potere di creare la loro vita, non ha il potere di toglierla”.

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