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Il mare di plastica


Dal giornale online "L'intellettuale dissidente" del 23 Marzo 2015

Domenica scorsa la puntata di Presa diretta, su Rai 3, he presentato un bel reportageintitolato “Salviamo il mare”. Questa trasmissione è stata positiva per due motivi. Il primo sta nel fatto che, per una volta, in diretta televisiva è stato possibile vedere qualcosa di decente, educativo ed interessante. Il secondo, ancora più importante, risiede nel contenuto stesso del programma, teso a porre l’accento sulla difesa della Natura, in una società costruita su e per l’uomo. Certo, potranno argomentare gli ecologisti più esigenti, non si è parlato del mare per la salvaguardia del mare in sé, ma (quasi) soltanto in ottica antropocentrica, ovvero per garantire il benessere e la stabilità alla società umana, in un periodo storico in cui ogni forma di equilibrio è venuta meno. Sicuramente, comunque, un ottimo inizio per tutti e per il Tutto.

Il fattore negativo, invece, risiede nel contenuto espresso nel programma. Per chi ancora non lo sapesse, infatti, la situazione è tragica, per le acque del Pianeta e quindi ancheper noi. Di fatto, i mari e gli oceani su tutto il globo terrestre, sono ricoperti da tonnellate di plastica, in superficie, ma soprattutto in profondità. Si stima che, ogni anno, vengano buttate otto milioni di tonnellate di plastica in mare. Se ci si limita all’osservazione dei rifiuti di plastica visibili ad occhio nudo ed alle acque italiane, un resoconto di Legambiente, a seguito di 87 ore di osservazioni da parte di Goletta Verde e dell’Accademia del Leviatano,afferma che: «nei nostri mari si contano fino a 27 rifiuti galleggianti ogni chilometro quadrato. Rifiuti per lo più plastici con una percentuale di quasi il 90%. Lungo le rotte di Goletta Verde il team di osservatori ha incontrato 1 rifiuto plastico ogni 10 minuti». Questo dato, già di per sé inquietante, diviene terrificante nel momento in cui si costata che quella in superficie è soltanto il 15% della quantità di plastica presente nel mare. Il resto è tutta nell’abisso, lontana dai nostri occhi e (ancora per poco) dalle nostre preoccupazioni.

La plastica sottomarina è così tanta che ha dato vita a delle vere e proprie “isole”, altresì dette “grandi chiazze di immondizia”, venutesi a creare a causa dell’enorme quantità di spazzatura presente nelle profondità degli oceani. Al mondo di queste mostruosità, per il momento, ne esistono cinque (due nel Pacifico, due nell’Atlantico ed una nell’Indiano): la più grande, nota come Pacific trash vortex, è estesa praticamente come il Canada, così come attestato da Charles Moore, scopritore di quest’area immonda.

Il problema della plastica, materiale indiscutibilmente incredibile, sta nel fatto che non è biodegradabile. Perciò, essa una volta arrivata in mare non se ne va più e, cosa persino più grave, disperde al suo interno i diversi additivi che la compongono (come i dannosissimi ftalati). Inoltre, come afferma Moore: «Le plastiche sono difficili da riciclare. Un insegnante mi ha spiegato come esprimere la percentuale, inferiore al 5%, di plastiche riutilizzate nel ciclo dei rifiuti: poco virgola nulla. Questa è la cifra». A farne le spese, oltre alle acque dell’intero Pianeta, sono gli animali che vi abitano. I pesci, di tutti i tipi, scambiano i pezzettini di plastica per cibo e, addirittura, vedono nelle buste della spesa delle meduse. Le tartarughe marine, specie a rischio di estinzione, sono particolarmente sensibili a questo fenomeno: in una di esse, i ricercatori dell’università di Siena, hanno trovato ben 150 micro-plastiche. Il premio di maggiori mangiatori di plastica, però, lo vincono le balene del Mediterraneo, contaminate quattro volte in più rispetto alle loro simili di altre aree.

Come se non bastasse, i mari sono inquinati e deturpati anche da altri fenomeni, tra cui: i vari scarichi fognari, a causa del malfunzionamento dei depuratori (fenomeno parecchio diffuso in diverse città d’Italia); le annuali pulizie delle cisterne delle petroliere (paragonabili ad un vero e proprio disastro ambientale); la pesca a strascico, massima distruttrice quotidiana della biodiversità marina; varie ed eventuali, come il disastro nucleare di Fukushima che ha trasformato il Pacifico in un cimitero (seppur di plastica).

Insomma, la nostra società sta andando alla deriva, ma ha deciso di far morire anche il mare, visto che, come afferma Moore: «Solo noi umani creiamo rifiuti che la natura non può riassorbire». Massimo Fini direbbe che l’umanità è divenuta un “tumore” per la Terra. Come dargli torto? Tuttavia, è (forse) ancora possibile cambiare rotta o, perlomeno, è obbligatorio provarci, sia a livello personale che sistemico. È necessario, prima di tutto, apportare degli accorgimenti alla nostra vita sconsiderata, come il rispetto della raccolta differenziata, la riduzione dei consumi alimentari (l’enorme quantità di pesce pescato come detto sta distruggendo le profondità marine) ed il drastico boicottaggio (seppur difficile) dei prodotti “usa e getta”, tanto comodi per la nostra routine quanto incontenibili per il Pianeta. Sebbene il cambiamento quotidiano in ognuno di noi rappresenti la condicio sine qua non sarebbe possibile pensare di salvare il mare, questo non basterebbe. È evidente che servono anche interventipolitici globali non indifferenti volti, non al profitto, ma alla conservazione della Natura. In questo senso, la tecnologia, per una volta, potrebbe svolgere una funzione essenziale, ridivenendo mezzo per risolvere i problemi e non fine in sé, causa degli stessi. Una cosa è certa: la sfida ecologica è oramai evidente, spetta all’umanità prenderne atto. Al più presto.

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