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Pensiero e azione

  • Di Lorenzo Pennacchi
  • 1 mar 2015
  • Tempo di lettura: 3 min

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Fin da quando è nato, il nostro movimento si è retto su questo binomio indissolubile. A nostro parere, infatti, l’azione non potrebbe prescindere da una base teorica sostanziale; allo stesso tempo, il pensiero senza risvolti pratici sarebbe del tutto inutile. Ciò a cui miriamo, perciò, è la concordanza del pensiero nell’azione. In questo senso, il nostro percorso non può che essere composto da differenti parti tra loro complementari. Una conferenza ed un presidio non sono altro che due facce della stessa medaglia, quella, appunto, che riassumiamo con la formula “educati per agire”.

Troppo spesso, invece, questi due aspetti vengono scissi e considerati come autonomi. Il risultato è una moltitudine di attivisti priva di un orizzonte teorico che ne definisca il cammino, da una parte; una élite di filosofi, tecnici e specialisti lontani dalla pratica, dall’altra. Questa scissione è lo specchio della modernità, dove ogni cosa viene scomposta e analizzata in maniera indipendente rispetto alle altre. Questo atteggiamento riduzionista è la causa primaria della distruzione dell’armonia che legava l’essere umano alla Natura, ma anche della connessione, all’interno dell’uomo stesso, tra mente-corpo-spirito. Perdendo il suo equilibrio interiore, l’animale umano ha conseguenzialmente annientando il legame armonioso con il Cosmo.

Per questo è difficile, se non impossibile, pensare di poter recuperare quel tipo di connessione, con il Vivente nella sua Totalità, se prima non decidiamo di modificare il rapporto tra le diverse parti che compongono la nostra persona. Insomma, per ritrovare l’armonia perduta con la Natura nel suo insieme, dobbiamo necessariamente anche recuperare un nostro equilibrio interiore. In questo senso, la nostra mente deve essere il motore del nostro corpo e del nostro spirito: il pensiero deve servire l’azione, materiale e spirituale che sia.

Come è stato detto da più autori, da Gandhi a Evola, negli ultimi secoli in diverse forme dobbiamo sostanzialmente cambiare noi stessi per cambiare il mondo, laddove per “cambiare” si intende “recuperare” un qualcosa che è andato perduto, ovvero la connessione con noi stessi e con tutto ciò che è Vita. Il cambiamento, infatti, non implica una trasformazione radicale della nostra essenza, ma una sua rigenerazione, sempre dinamica e mai definitiva. Così pensare, in vista di fini pratici (fisici e spirituali) ed in costante rapporto dialogico con essi, diviene un’attività tesa al miglioramento continuo di noi stessi.

Una simile prospettiva teorica e pratica allo stesso tempo, perlopiù estranea ai grandi sistemi moderni, la si può rintracciare nella filosofia antica, almeno da Socrate in su. Platone, Aristotele e i filosofi ellenistici (su tutti gli stoici e gli epicurei, ma anche i cinici e gli scettici) hanno costituito la loro vita, seppur in forme diverse, sul legame indissolubile tra il pensare e l’agire. Come osserva Pierre Hadot: «La filosofia antica propone all’uomo un’arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna si presenta anzitutto come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti».

Una vera e propria arte della vita, perseguita attraverso degli esercizi spirituali (teorici e pratici), mirata al perfezionamento di sé (rimanendo comunque consapevoli dei propri limiti e della condizione di “amante” e non “possessore” della saggezza), ma anche, se non soprattutto, alla preservazione del rapporto armonico con il Cosmo nella sua interezza. Così Plutarco, nel suo De tranquillitate animi, cita un aforisma di Diogene il Cinico: «Un uomo dabbene non celebra forse una festa ogni giorno? È una festa splendida, se siamo virtuosi. Il mondo è il più sacro e il più divino di tutti i templi. L’uomo vi è introdotto dalla nascita per essere lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini sensibili delle essenze intelligibili, che sono il sole, la luna, le stelle, i fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l’alimento delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e rivelazione perfetta deve essere colma di lode e di gioia».

Potremmo continuare a lungo con gli esempi, ma crediamo che questo sia sufficiente per far comprendere il succo del nostro discorso: non ci interessa essere filosofi o esegeti dell’antichità, ma recuperare un modo di rapportarsi alla Vita, nostra e non solo, che è stato obliato quasi del tutto oggi e che invece germogliava allora. Insomma: ritrovare noi stessi, per risentirci parte di un Tutto.


 
 
 

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